E' l'ultimo dell'anno, un anno che mi ha regalato tante belle emozioni ma purtroppo la sua conclusione è di una tristezza indescrivibile. Lisa è alla fine della sua presenza tra noi: dopo averci accompagnato con discrezione per 12 anni, ha deciso di dire basta. Putroppo l'ultima parola credo che dovremmo dirla noi. Non ho parole per descrivere il momento che ci aspetta tra qualche ora. Approfitto di un articolo di SIMONE SIMONE Scrive su www.scritturamista.it che ieri mi faceva leggere. Ve lo propongo:
Non avevo ancora tredici anni quando la portammo a casa in una scatola incastrata tra lo schienale del sedile davanti e la seduta di quello dietro. Era nera come la notte con la punta delle zampe arancioni come il legno delle vecchie radio. Non ho mai guardato la strada, seduto accanto a quella scatola, ci guardavo solo dentro con un sorriso inebetito. Era la mia prima conquista, era la prima volta che guardavo in faccia la felicità. Lei non capiva cosa stesse succedendo, ma le bastava che continuassi a guardarla e farle una carezza e a farmi mordere le dita con dei denti che erano spilli d’avorio. Alle donne in certi momenti bastano queste cose qui, me l’ha insegnato lei. Tredici anni li ho compiuti proprio qualche ora dopo che la portammo a casa. Avevo invitato a casa nuova tutti gli amici della terza media. C’era anche una ragazza che andava in primo. Grazie a Lisa che ha mangiato tutti i resti delle pizze nei cartoni che la potevano contenere, quella sera, quella ragazza l’ho baciata.
Non avevo ancora quattordici anni quando decisi che avrei cominciato a giocare a rugby. Lisa mi ha insegnato a placcare. Non c’è mai stato modo di insegnarle a riportare la palla, il frisbee, il tronco, la ciabatta, la scarpa. Perciò io tiravo qualcosa e lei poi doveva sfidarmi nel prendergliela. Giocavamo in giardino, ma per me era allenamento, tra i più frustranti cui abbia mai partecipato. Ovviamente, anche il più utile. Sono riuscito a prenderla non più di cinque volte in tutti i nostri allenamenti, per lo più quando cominciava ad avere una sua età. Gli inglesi in maglia bianca con la rosa rossa cucita a destra sul petto, però, quelli li ho presi tutti. Fiero nella mia maglia azzurra che ora sta appesa in camera sopra le lauree, in quella mezz’ora che li ho incontrati, nonostante i sessantaquattro punti che ci hanno fatto l’onore di regalarci, li ho presi tutti. Potevano alzare le ginocchia quanto volevano, ma Lisa mi aveva insegnato a placcare sotto i suoi gomiti, giusto a qualche palmo da terra. L’aveva insegnato anche a tutti i ragazzini che al campo di terra e sassi le correvano dietro senza raggiungerla mai. Lei correva con la lingua fuori e le orecchie indietro, ogni tanto si voltava e quando era stanca si sdraiava a farsi fare gli onori della vittoria.
Avevo quindici anni quando al confine tra Francia e Spagna, mentre facevo finta di essere in California con la mia tavola, Lisa mi venne a prendere in mezzo alle onde. Non ero in pericolo, toccavo ancora, c’era bassa marea. A lei le onde non piacevano, e comunque ero troppo lontano. Attraversò gli scogli, passò sotto le onde, mi diede uno sguardo di disapprovazione e addentò la tavola. Non ci fu modo per fargliela lasciare. Mi trascinò a riva, si asciugò rotolandosi nella sabbia e ululò ogni volta che provai a rientrare in acqua. Quando mia madre, da bambino, voleva farmi uscire dall’acqua, doveva inventarsi le storie più raccapriccianti sui mostri marini del tramonto perché ne avessi paura e le dessi retta. A Lisa sono sempre piaciuti di più i fatti che le parole. Non si dice di no ai fatti.
Avevo diciassette anni quando incontrai dietro casa il bullo che quando ne avevo dodici mi picchiava ogni volta che cercavo di andare dalla ragazzina con cui uscivo, che abitava dall’altra parte del quartiere. Quando l’ho incontrato lui di anni ne aveva più di venti. Io stavolta avevo Lisa con me e qualche anno di botte in più sugli zigomi. Non servirono. Al primo sguardo fuori posto, al primo passo troppo ardito, alzò il pelo delle spalle che la fa raddoppiare di volume, mostrò i canini ormai lunghi e saldi e ricurvi. Cambiò strada veloce. Io sorrisi come un idiota. Fu solo la prima volta che mi toccò essere salvato da una donna.
Avevo ventitré anni quando mia madre dovette rinnovare il passaporto per Lisa. Lo stesso rinnovo che avrei dovuto fare io per andare a trovare Sara in Sri Lanka, anche se poi non servì. Tornò lei e anche per lei furono feste e salti e abbracci pieni di peli, sdraiati per terra a rotolarsi dentro ricordi e ritrovi. Quel passaporto, a Lisa, servì per accompagnarmi lontano da casa più di un migliaio di chilometri. Tanto se fosse servito sarebbe venuta correndo. Mi ha lasciato andare lontano per mesi. Dicono che i cani non abbiano la cognizione del tempo, non sanno se quando sei tornato dal supermercato o da lezione sono passati anni o solo una manciata di minuti. Non sanno cosa siano né gli anni né i minuti. Quando sono tornato dalla Spagna però, ha pianto e ululato e mi ha dato musate e zampate per tutto il viaggio dall’aeroporto a casa. Era come se avesse imparato a contare e si fosse messa a farlo, da uno fino a sei mesi, ora per ora fino al mio ritorno.
Avevo ventiquattro anni quando eravamo in trenta nel giardino dei placcaggi mancati. Festeggiavamo la mia seconda laurea, che poi è una sola, divisa in due episodi più o meno divertenti, più o meno faticosi. Lei c’era, lei era la vera festeggiata. Ci provava a mettersi da parte, ma non c’è mai riuscita. Ha sempre catalizzato su di sé complimenti, timori, ammirazioni, stupori. Io l’ho sempre guardata come la sorella maggiore, fiero di lei più che di qualsiasi laurea. Un’amica tra quei trenta mi disse “Guarda solo te, non ha altri occhi che per te. E guarda che occhi”. Io sorrisi commosso. Erano occhi fieri i suoi, come quelli di una sorella maggiore.
Non so quanti anni avevo ogni volta che la sveglia non funzionava, che le urla di mia madre non le sentivo, che il rumore del folletto non bastava. Serviva solo lei. Arrivava di corsa, si lanciava sul letto e quindi sul mio costato con le sue unghie da lupo. Lei, a letto, deve stare dalla parte del muro, così può stirarsi meglio e spingersi sotto il cuscino e le mie spalle, finché non c’entro più nel letto e ci rimane solo lei. A quel punto non mi rimaneva che andare a scuola.
Non so quanti anni ho avuto ogni volta che sono tornato a casa triste o deluso per qualcosa o qualcuno o me stesso. Qualsiasi cosa fosse mai successo, lei è sempre stata lì a svegliarsi quando rientravo tardi, battere la coda e spingere il muso sotto le mie mani che lo portavano alle guance bagnate da qualche lacrima amara. Da qualche dolore che lei non conosceva. Lei, però, è sempre stata lì, senza giudizio e senza lamento. Solo lì a guardarmi con gli occhi grandi e neri che solo lei sa di avere. Non so quanti anni avevo quando ho capito che non ho proprio niente, Lisa no di certo. Lisa non è di nessuno, al massimo sono io a essere suo.
Oggi ho venticinque anni e per la prima volta la vedo debole. Inerme. A volte spenta. Ha dodici anni e mezzo e per qualche assurdo calcolo è come se quella mia sorella maggiore ne avesse più di ottanta. Ora sul corpo ha mille colori, grigio, arancione, rosso, giallo, bianco e nero. Ha male. Ha il male. Ha i mali. Lei non ti dice nulla, non si lamenta di nulla. Solo, smette di correre, di camminare, di alzarsi, di mangiare, di bere. Bisogna ricordarglielo e forzarla. Vorrebbe andarsene lontano, io lo so. Solo, non ci riesce, non può. Per un animale la dignità viene prima della salute. Noi ce lo siamo dimenticato. Noi non siamo più animali e la nostra salute è diventata la nostra religione, piegando la dignità ai modelli di utilità più adatti di volta in volta. Un animale, un cane, la dignità è tutto ciò che ha, insieme all’amore e alla fiducia che decide di concedere solo e soltanto a uno o pochi compagni.
Oggi ho venticinque anni e ho guidato io per portarla dal medico. Mio padre accanto che ci prendiamo a spallate a ogni curva. Mia madre dietro con gli occhi gonfi e rossi che a ogni curva si girano ad assicurarsi che Lisa stia bene sdraiata lungo tutto il portabagagli. Ci dice che i mali sono cresciuti, che è il cortisone a non farglieli sentire sempre, ma che se non mangia bisogna forzarla che altrimenti il cortisone non può prenderlo e quindi i mali poi si fanno sentire. Capiamo. La portiamo in braccio nel suo bagagliaio. Capiamo che la dignità dobbiamo trovarla nella nostra forza, nella pietà, nella compassione, nella consapevolezza di sapere quanto lei sia amata e sia stata amata. In quella della certezza del suo amore per noi.
Oggi ho venticinque anni, è capodanno e piove. Oggi ho venticinque anni, ma a guidare è sempre mio padre, io gli sono accanto e dietro mia madre tiene la testa stanca di Lisa sulle gambe. Dentro una scatola non c’entra più da tanti anni. Esistono le cliniche veterinarie con il pronto soccorso proprio come quello dove mia madre e mio padre mi hanno accompagnato tante volte. Oggi accompagniamo lei. Siamo stati con lei fino alla fine, fino alla liberazione. Altro non è stato che liberazione. Finito il liquido blu di una siringa che sembrava quella di un film, Lisa non ha chiuso gli occhi, loro non lo fanno dice la dottoressa con gli occhi che sono dello stesso blu. Però, è subito uscito il sole, forte e giallo e alto, per almeno un’ora. Poi ha ricominciato a piovere, ché le nostre lacrime non bastavano. Non bastano.
Tornati a casa, mio padre dice che lui ormai delle persone apprezza solo la dignità, dice che non gli importa di nient’altro, non dei soldi, non del lavoro, non della famiglia. Solo la dignità. Un animale alla fine, non vuole nient’altro che dignità.
Ciao Lisa.