imagesCome saprete ho conosciuto il rugby da ragazzetto giocando in una categoria chiamata le Aquile e a 14 anni iniziavo un percorso che sarebbe durato 7 anni girando per campi fatti di fango, sudore, fatica e tanta polvere. Nulla a che vedere con i moderni impianti di società più blasonate di quella alla quale ero tesserato. 50 anni fa a Roma le società non erano poi molte, Lazio, CusRoma e AlgidaRoma per poi salire nelle colline dove si trovava Frascati, Cecchina e con Colleferro e Segni il lazio rugbistico finiva li. Ogni trasferta era epica perché affrontata o con FordTransit o con autovetture private di dirigenti e appunto “accompagnatori”. Di genitori non c’era presenza, tant’è che mio padre credo abbia visto solo una mia partita: lo chiamava lo sport dei caproni. E i caproni scendevano in campo con spirito sportivo, tanto agonismo e tanta cattiveria anche perché si era grossi, senza pensieri e soprattutto giovani. Ancora non eravamo iniettati di concetti tipo l’appartenenza alla maglia, orgoglio e soprattutto dei terzi tempi, adesso offerti dalle famiglie, ma non essendoci le famiglie i terzi tempi li abbiamo letti molti anni dopo. Quando si riusciva a vedere una partita in TV, rigorosamente in bianco e nero, era quasi una festa se poi si trattava del 5 nazioni si toccava il massimo del piacere: i nostri campioni, i nostri esempi in TV! A proposito di valori, si cresceva non proprio all’insegna della sportività, ma più per il rispetto che il campo dettava: l’avversario era un nemico da affrontare e sfinire e alla fine si rispettava perché magari ci aveva rifilato qualche botta, magari non proprio in fasi di gioco. Ricordo sempre come in una partita del campionato primavera (quello per capirsi che disputavano le squadre che non si qualificavano oltre le fasi regionali…Noi appunto) contro Il Cecchina in un campo dove oggi non si giocherebbe neanche una partita di beachVolley, scaramucce in campo portano ad un epilogo dove il mio antagonista esce con del sangue per un mio colpo. Nel vederlo mi rendo conto che probabilmente non si era coscienti di cosa si potesse causare con colpi che di sport hanno poco a vedere, e scoppio in pianto. Ai bordi del campo si allenava un campione del rugby italico al nome di Paolo Paoletti, pace alla sua anima, che a fine partita entra dentro gli spogliatoi. Lui aveva l’abitudine di farsi la barba a fine allenamento ed entrò nello spogliatoio cercandomi dicendo “va a giocare a pallavolo se ti viene da piangere per un cazzotto che non hai nemmeno ricevuto” Questo era il clima e devo dire gli insegnamenti ricevuti; altre figure ci istruivano a provocare del male in fasi di gioco con dovizie di particolari anatomici da colpire. Negli spogliatoi regnava il nonnismo dove i giovani erano facile preda della goliardia dei più grandi: appena dopo le “AQUILE” si passava di categoria entrando in GIOVANILE che ospitava giocatori dai 15 ai 19 anni. Oggi in questa fascia d’età esistono ben 4 categorie, quindi il nonnismo dei più grandi nei confronti dei piccoli era marcato: il primo anno eri microbo, dopo due anni diventavi zio poi nonno. Chiaro che i microbi contavano meno di niente, alla prima partita dovevi portare una “boccia” di STRAVECCHIO che per le finanze del tempo era un suicidio. La domenica potevi essere dirottato in una categoria ancora più spietata: il campionato delle RISERVE della SERIE A dove confluivano i giocatori che non erano convocati in prima squadra e per non farli stare fermi si organizzava questo campionato. Ma la prima squadra non aveva una rosa cosi ampia, e quindi i posti mancanti venivano occupati dai microbi provenienti dalla non convocazione in giovanile. Quindi giocavi e dovevi trovare posto in squadra cercando di scalzare un giocatore più grande e più grosso di te e se giocavi in mischia era molto difficile avanzare: ecco che giocavi più di qualche partita nel campionato RISERVE. Partita??? Una corrida vedeva meno sangue, un ring meno schiaffi e tu cercavi di veleggiare cercando di prenderne meno possibile. Tutto questo per dire che chiunque abbia giocato a rugby, qualsiasi sia stato il suo livello, sa da subito cosa vuol dire la sofferenza e ci si ammala di masochismo, così il male fa meno male! Per questa ragione oggi ci si reca allo stadio per vedere la Nazionale, pagando cifre folli, sapendo in fondo di vederla perdere, ma sperando sempre che i valori di attaccamento alla maglia, onore bla bla bla, portino a risultati positivi. Questi ogni tanto arrivano, devo dire. Negli anni si sono cambiati un mucchio di allenatori spaziando per mancanza di navigatore da Inglesi, Irlandesi, Neozelandesi, Argentini. L’ultimo, tale Sig. QUESADA, argentino ha dato un’impronta al gioco notevole, avvallata anche dal fatto che in nazionale arrivano solo professionisti appartenenti a due uniche franchigie nazionali. La franchigia è una squadra composta dai migliori giocatori emersi nel campionato minore, provenienti magari dalle varie Accademie di formazione, segnalati e pagati in parte dalla Federazione. Tornando al nostro QUESADA abbiamo visto partite molto belle, vedi quella di novembre contro gli AllBlacks, sprazzi contro la Scozia, 70minuti con il Galles ma abbiamo vissuto uno schiaffeggiamento tremendo contro la Francia. Sembra sempre che i nostri si caricano mentalmente, tanto che si ingigantiscano le aspettative delle partite a livello biblico e si entra in campo con la convinzione di fare una passeggiata di salute…e invece baratro. La realtà è che noi cresciamo, anche fisicamente, ma anche gli altri non stanno li a guardare, crescono pure loro aiutati anche e soprattutto dalla loro tradizionale rugbistica plasmata sul popolo che rappresentano. Ultimo aspetto i tifosi. Ogni volta che stasi sugli spalti dorati, sei immerso con i tifosi avversari e ogni volta sembra che pur essendo a Roma loro siano sempre tanti, sempre più di noi. Nell’ultima partita con Francia credo che la proporzione di tifosi fosse a totale favore dei transalpini, e quando attaccavano a cantare MARCHONS MARCHONS o “chi non salta italiano è” mi sono sentito proprio in minoranza etnica!!!